In queste ultime ore è sempre più vivo il cordoglio del mondo del basket per la scomparsa di "Dado" Lombardi. Tra i vari ricordi degli addetti ai lavori, ce n'è uno molto intenso su cui vale la pena soffermarsi: è quello di Severino Baf, tra le migliori penne del giornalismo sportivo locale di tutti i tempi e grande conoscitore della palla a spicchi triestina.
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In altre occasioni il singolare e impari "uno contro uno" avrebbe provocato una sonora risata e un inevitabile sberleffo nei confronti dell'improbabile avversario ma oggi che la montagna alta quasi seimila punti non c'è più quell'immagine trabocca di mestizia. Gianfranco Lombardi era "McLombard" per gli sbalorditi americani alle Olimpiadi di Roma, il "Pelè della pallacanestro" per Borghi, il patron dell'Ignis Varese, "Dado" per tutti, un nomignolo che scatenava la tifoseria in trasferta.
"Non è vero che tutto fa brodo, è Lombardi il vero buon brodo...", si levava dalla curva e io rispondevo “Ciuff, ciuff!”, raccontava. Non aveva timori di sorta, il futuro capitano di ventura che veniva dall'università della strada, nella natia Livorno. C'era un ex "mulo" nella "Cama", Stelio Posar, come suo punto di riferimento: “Ero un ragazzino poverissimo e in casa mia si mangiava una volta solo al giorno e io facevo le pulizie al campo dei Salesiani per prendere qualche liretta che mi consentisse di soffrire un po' meno la fame. Quando la Virtus Bologna mi ha dato i primi soldini li ho tenuti in tasca per venti giorni”. La voglia di emergere unita al talento hanno fatto il resto.
Su un vistoso difetto glissava: “Ero bravo nella difesa a voce”. Detestava perdere. Nemmeno a carte, sperimentato sulla pelle dell'inviato a Chieti, colpevole, secondo l'allenatore dell'unica sconfitta su otto gare... I pugni levati al cielo: un cerimoniale in segno di vittoria destinato a ripetersi. Peccato che un energumeno con un preciso diretto al volto non fosse d'accordo. Nel pullman tutto sputacchiato, in attesa che spostassero una roulotte messa di traverso, Rich Laurel commentò rivolto al coach: “Quel segno rosso su zigomo, tu avere influenza?”.
Compiaciuto per la gioia che riusciva a trasmettere, mai soddisfatto, Lombardi accantonava in fretta i successi poiché li riteneva segno di appagamento, se non di vecchiaia. Costantemente indeciso sugli stranieri, sapeva invece scegliere i veri uomini. E le bandiere. Una su tutti: Gino Meneghel, capace di incarnare la passione e l'orgoglio dell'intera città. Diceva che lui sgrezzava e poi i suoi colleghi raccoglievano i frutti. Cercava in tutti i modi di migliorare i suoi giocatori, a costo di torturarli (Ritossa docet) sulla Via Crucis delle gradinate di Chiarbola. Vedeva in Caio Scolini un potenziale Jerry West e in Pirovano un possibile Oscar Robertson.
Scaramantico fino all'eccesso: un maglione dal quale era meglio girare alla larga e i numeri da bandire. Ne sa qualcosa un tifosissimo, premiato per il suo attaccamento alla squadra tanto da far parte del gruppo e lasciato alla mercé dell'autostop in quanto diciassettesimo, quindi portatore sano di sfiga. Ha sempre avuto il rimpianto di non aver potuto guidare la fuoriserie a spicchi, ovvero la nazionale. A pensarci bene sorrideva poco, probabilmente la vera felicità l'espresse davvero il giorno del matrimonio con la incantevole Maria Pia.
Da molti anni si era allontanato dall'ambiente e con l'ironia che lo contraddistingueva affermava di aver raggiunto la pace dei sensi cestistici. In realtà era in pena per la consorte. E si sa che la morte dentro arriva piano piano continuando a vivere. Non una volta è tornato sui suoi trascorsi leggendari. Aveva la fama di sparagnino e si è dimostrato molto generoso con gli addetti ai lavori, che in lui trovavano una miniera di notizie, mai banali. “Abbiamo fatto grande Trieste, eh?” dichiarò in una circostanza ai giornalisti, premiati così oltre misura.
Grazie a te, Dado, pure la stampa ha fatto un salto di qualità.